La normativa fiscale sulle criptovalute è regolata dall’articolo 67 comma 1 lettera c-sexies del TUIR, che qualifica come redditi diversi, sottoposti ad imposta sostitutiva del 26%, “le plusvalenze e gli altri proventi realizzati mediante rimborso o cessione a titolo oneroso, permuta o detenzione di cripto-attività, comunque denominate, non inferiori complessivamente a 2.000 euro nel periodo d’imposta”.
Le istruzioni del quadro RT del modello Redditi PF 2024, al rigo RT33 colonna 2, a cui è rimessa la dichiarazione del totale delle plusvalenze imponibili derivanti da cripto-attività, precisano che l’importo imponibile da dichiarare sul rigo “non deve essere non inferiore a 2.000 euro”. La cifra suindicata, dunque, costituisce la “soglia”, in quanto, se superata, l’intero importo della plusvalenza diventa imponibile. Non è intesa come “franchigia”, poiché non sono assoggettate a imposta sostitutiva solo le eccedenze di plusvalenze che superano la somma di 2.000 euro.
Pochi giorni fa il viceministro dell’economia Maurizio Leo ha proposto un aumento della tassazione sulle plusvalenze derivanti dall’investimento in criptovalute dal 26% al 42%, qualora le plusvalenze superino la soglia di 2.000 euro nel corso del periodo d’imposta. La manovra, se approvata con la nuova legge di bilancio, potrebbe avere conseguenze negative per lo sviluppo del settore, rendendo l’Italia uno dei paesi con la tassazione più elevata per gli investitori in criptovalute.
Si prevede che la “super-tassazione” delle plusvalenze generate dalle criptovalute colpirà oltre 3,6 milioni di italiani, come si evince dai dati dell’Osservatorio Blockchain and Web 3 della School of Management del Politecnico di Milano, secondo cui il 32% avrebbe effettuato gli acquisti su una Borsa di criptovalute, il 17% con un acquisto diretto tramite servizio di wallet ed il 38% indirettamente attraverso servizi di trading tradizionali e app bancarie.
Gli operatori del settore temono che l’aumento dell’aliquota scoraggerà nuovi investimenti, riducendo l’interesse degli investitori. Si rischia, inoltre, di creare un’asimmetria delle criptovalute e il mercato tradizionale degli strumenti finanziari, come ad esempio gli ETF.
Questa situazione potrebbe spingere i piccoli investitori a non dichiarare i loro possedimenti, ritenendo che le possibili sanzioni siano più vantaggiose per loro in confronto al rispetto delle normative.
Vediamo, dunque, a quanto ammontano le sanzioni. Il contribuente può incorrere in sanzioni di tipo amministrativo, ma in determinati casi si arriva a rischi di tipo penale.
Le sanzioni in denaro possono essere applicate dall’Agenzia delle Entrate in diverse situazioni legate all’omessa dichiarazione delle criptovalute e/o ad errori o ritardi. Gli importi dovuti sono i seguenti:
– sanzione per omessa dichiarazione delle criptovalute: 250 euro di sanzione fissa più un importo variabile dal 120% fino al 240% delle tasse dovute, che vengono aumentate di un terzo;
– sanzione per errata dichiarazione: multa da 258 euro a salire, in base alle
tempistiche con cui il contribuente rimedia all’errore, dal 3% al 15% delle somme non dichiarate. La multa può aumentare se le criptovalute sono detenute in portafogli digitali presso paesi in black list in quanto paradisi fiscali;
– sanzione per dichiarazione tardiva: importo minimo di 25 euro, eventuali interessi o sanzioni cambiano in base all’utilizzo dello strumento del ravvedimento operoso.
Oltre alle sanzioni in denaro, la legge prevede conseguenze penali: per imposte non dichiarate e versate oltre 50.000 euro è prevista la reclusione da 2 fino a 5 anni.

Di DOTT. MATTEO FRISACCO

Dottore Commercialista e Revisore Legale dei Conti, Membro effettivo del Collegio Sindacale, Revisore Legale dei conti, Curatore Fallimentare, Iscritto nell'Elenco dei Revisori degli Enti Locali, Consulente nella gestione dei rapporti di lavoro legge 12/1979, Iscritto all'Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Treviso, Iscritto al Registro Nazionale dei Revisori Legali.

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