Nell’esercizio di alcune attività professionali è doveroso presentarsi con un abbigliamento consono. Si tratta di regole non scritte in nessuno degli ordinamenti professionali ma dettate, oltre che dalla volontà di dare una certa immagine professionale di sé, anche dal rispetto e decoro della professione che si esercita.
Infatti, se è vero che un famoso proverbio afferma che “l’abito non fa il monaco”, è altrettanto vero che, ad esempio, un avvocato che si presenta di fronte ad un giudice con una “semplice” polo sotto la toga dà di sé una immagine poco professionale.
Pertanto, è consuetudine, per i professionisti, vestire in maniera formale ed elegante.
Ciò comporta, però, il sostenimento di alcuni costi per l’acquisto degli abiti ed accessori, anche di non poco conto. Ci si pone, dunque, una domanda: è possibile dedurre tali costi considerandoli inerenti allo svolgimento dell’attività professionale?
Alla domanda non è possibile dare una risposta univoca, anche perché, oltre a non esserci alcuna norma che prevede ciò, non c’è nemmeno una pronuncia dell’Amministrazione finanziaria che, in senso positivo o negativo, affronti la questione.

Principio di inerenza nel lavoro autonomo.

Il principio di inerenza non è direttamente disciplinato nel TUIR, sia nell’ambito del reddito d’impresa che in quello di lavoro autonomo.
A dire il vero, per il reddito d’impresa l’art. 109, comma 5, TUIR prevede che “le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi.”
Per quanto riguarda, invece, il lavoro autonomo, il legislatore si limita semplicemente a stabilire che il reddito è costituito dalla differenza fra l’ammontare dei compensi percepiti nel periodo d’imposta e quello delle spese sostenute nell’esercizio della professione (art. 54 TUIR).
Diventa, pertanto, difficile dare una definizione inequivocabile del principio di inerenza. Bisogna quindi partire dal presupposto che il reddito derivante da un’attività di lavoro autonomo dovrebbe essere inteso come correlazione della spesa all’attività professionale nel suo complesso, senza che debba esserci un nesso rigoroso con i singoli compensi.
L’Agenzia delle Entrate ha affermato che “le spese afferenti l’attività professionale sono infatti quelle sostenute per lo svolgimento di attività o per l’acquisizione di beni da cui derivano compensi che concorrono alla formazione del reddito professionale. È necessario pertanto che sussista una connessione funzionale, anche indiretta, dei costi sostenuti rispetto alla produzione dei compensi che concorrono a formare il reddito di lavoro autonomo” (risoluzione 8 marzo 2002, n. 79/E).
Ancora, in un altro documento di prassi ha affermato che le spese devono essere correlate all’attività nel suo complesso indipendentemente dal valore aggiunto imputabile ad ogni singola prestazione svolta dal contribuente non dovendo rinvenirsi, per la loro deducibilità, una particolare relazione con i singoli compensi percepiti (risoluzione 16 febbraio 2006, n. 30/E).
Secondo la giurisprudenza.
Sul concetto di inerenza, sono molteplici le pronunce giurisprudenziali, sia di merito che di legittimità. Tra tutte si richiama la sentenza della Corte di Cassazione 18 febbraio 2015, n. 3198: in quella sede è stato affermato che, in materia di reddito da lavoro autonomo, l’inerenza presuppone un rapporto di diretta e immediata correlazione che deve instaurarsi ai fini della determinazione della base imponibile fra la spesa sostenuta e la professione esercitata. Il principio potrebbe apparire di facile applicazione, ma proprio perché manca una definizione di legge, si presta ad interpretazioni soggettive soprattutto in quei casi, come quello di cui si discute, in cui non vi è un rigoroso nesso tra i costi sostenuti da un professionista e i singoli compensi percepiti.

Deducibilità costo di acquisto abiti da lavoro.

E’ possibile, richiamando il principio di inerenza, sostenere che l’acquisto di abiti da indossare durante l’esercizio dell’attività costituisca un costo deducibile dal reddito di lavoro autonomo? In altri termini, si può affermare che ci sia un rigoroso nesso tra l’acquisto degli abiti e i compensi percepiti?
La risposta non può che essere negativa, anche se con alcuni distinguo. Infatti, è pacifico che l’acquisto di un camice da parte di un medico o di una toga da parte di un avvocato costituisca un costo inerente alla propria attività e, per questo, deducibile.
Ma non si ritiene possibile giungere alla stessa conclusione nel caso dell’acquisto di un abito elegante da parte di un dottore commercialista.
Non regge nemmeno l’eventuale, ma sicuramente più difendibile, deduzione del costo in misura pari al 50%, supponendo che l’abbigliamento possa essere indossato sia nelle ore di lavoro che nel tempo libero. Infatti, quello che sembra mancare è proprio l’inerenza di tale costo all’attività svolta, così come definita in precedenza. A ciò si deve aggiungere che nessuno degli ordinamenti professionali prevede, in maniera diretta, il binomio abbigliamento consono/decoro della professione.
In conclusione, optare per la deducibilità di tali costi (seppur in misura percentuale), allo stato attuale, espone al rischio di contestazione in caso di controllo da parte dell’Amministrazione, con pochissime possibilità di difesa in fase di contenzioso.

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Di DOTT. MATTEO FRISACCO

Dottore Commercialista e Revisore Legale dei Conti, Membro effettivo del Collegio Sindacale, Revisore Legale dei conti, Curatore Fallimentare, Iscritto nell'Elenco dei Revisori degli Enti Locali, Consulente nella gestione dei rapporti di lavoro legge 12/1979, Iscritto all'Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Treviso, Iscritto al Registro Nazionale dei Revisori Legali.

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